Risultava scomparso dal 2020, l’attivista siriano Mazen al-Hamada (nella foto). A dopo quattro anni dall’arresto a Damasco, il suo corpo senza vita è stato ritrovato a Saydnaya, la prigione governativa tristemente celebre per le torture subite dai detenuti politici, che Amnesty International ha definito “il mattatoio”. Le spoglie del difensore dei diritti umani di 47 anni erano tra quelle conservate nell’obitorio dell’ospedale Harasta, che serviva la struttura penitenziaria. Qui, riferisce la testata Al-Araby Al-Jadeed, venivano “smaltiti” i corpi dei detenuti prima di essere seppelliti in fosse comuni. La notizia ha subito suscitato le reazioni di attivisti e organizzazioni per i diritti siriane, scosse non solo per la notizia della morte ma anche per i visibili segni di tortura che il corpo dell’attivista riportava, anche sul viso, bloccato in una espressione di dolore definita “indicibile” da chi lo ha visto. “Ciò che sta emergendo in questi giorni dalle carceri del regime siriano supera ogni immaginazione” commenta per l’agenzia Dire Sami Haddad, docente di Lingua araba all’università L’Orientale di Napoli, di origine siriana. “Il corpo senza vita di Hamada, che è stato ritrovato insieme a un’altra quarantina di corpi, lo dimostra”. L’esperto continua: “Quando sui nostri media si parla di ‘jihadisti’ per descrivere il composito mosaico di combattenti ribelli che in questi giorni hanno messo fine al regime, l’intento è coprire le malefatte dei governi occidentali che in questi anni non hanno fatto niente per fermare Assad, dando credito alla motivazione che quest’ultimo usava per compiere crimini contro la popolazione: ossia, agire per contrastare il terrorismo. I gruppi terroristi in Siria hanno operato, ma negli anni sono cambiati e non sono i soli a comporre il panorama politico anti-Assad, ci sono anche tanti partiti liberali, laici e progressisti consolidati”. Secondo lo studioso, “costringere l’opinione pubblica a scegliere tra i ‘jihadisti’ e Assad è fuorviante”.
HAMADA, CHE PRESE PARTE ALLE PROTESTE PACIFICHE DEL 2011, IN CARCERE SUBÌ VIOLENZE FISICHE, SESSUALI E PSICOLOGICHE
Mazen Al-Hamada è stato una voce di primo piano nel denunciare, a partire dalle rivolte di piazza del 2011, le torture subite dai prigionieri politici nelle carceri del governo del presidente Bashar Al-Assad. Quest’ultimo è stato colpito da un mandato di arresto internazionale emesso dalla magistratura francese nei mesi scorsi proprio per complicità nei crimini di guerra e contro l’umanità che sarebbero stati commessi a partire dalle sollevazioni popolari che chiedevano una nuova Costituzione e libere elezioni. Assad, succeduto al padre Hafiz al potere dal 1971, è stato rovesciato domenica scorsa da una coalizione formata da combattenti ribelli guidati dal movimento islamista Hayat Tahrir Al-Sham che hanno, tra le prime azioni, restituito libertà ai detenuti. Al-Hamada era stato arrestato tre volte tra il 2011 e il 2012 per aver partecipato alle proteste ed era stato poi rilasciato nel 2014. Quindi, aveva lasciato la Siria per chiedere asilo in Olanda, dove aveva cominciato a collaborare con organismi per i diritti umani per denunciare le torture fisiche, sessuali e psicologiche subite dietro le sbarre per mano delle forze governative, insieme a tanti compagni di cella. L’attivista aveva raccontato ai media internazionali di essere stato picchiato con spranghe di ferro e che, durante interrogatori per estorcergli la confessione di “crimini di terrorismo mai commessi”, gli era stata gettata addosso acqua e olio bollenti. Al-Hamada si era speso per dare voce ai tanti uccisi o scomparsi durante la repressione. Il suo attivismo ha coinciso con la presentazione del ‘Progetto Caesar’, un archivio di oltre 55mila fotografie dei corpi senza vita delle carceri siriane, che un ex funzionario siriano riuscì a portare fuori dalla Siria per denunciare quello che accadeva in quei luoghi. L’archivio ha permesso a moltissime famiglie di conoscere il destino dei propri cari scomparsi e lo stesso Al-Hamada confermò di aver ritrovato molti dei suoi compagni di cella. Nel 2020, stanco per l’immobilismo dei Paesi occidentali di fronte alle ripetute denunce delle organizzazioni contro Al-Assad, aveva deciso di fare ritorno in Siria, complice anche una “amnistia” ottenuta dalle autorità siriane. Era stato arrestato in aeroporto, non appena sceso dall’aereo.
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aggiornamento la crisi mediorientale ore 14.02