Cronaca

  L’affaire Mattei. Di verità si può anche morire?/10

di Otello Lupacchini*

È in questo contrasto sull’ascrivibilità del delitto ad uno ovvero a più soggetti in concorso fra loro, che, al di là della fretta di cui immediatamente si è avuto l’impressione avessero sia gli investigatori sia gli inquirenti sia i giudici di chiudere un processo, nel quale non era imputato il solo Pino Pelosi, ma anche e soprattutto Pier Paolo Pasolini, del quale restituì l’immagine deformata di omosessuale pervertito avvezzo a corrompere e a violentare ragazzini, il punto d’emersione del mai sopito conflitto tra diversi modi di concepire la verità, frutto di differenti culture e ispirazioni ideologiche. Un contrasto solo formalmente risolto da quella  che, in linguaggio tecnico, è l’« incontrovertibilità della cosa giudicata », almeno per quanto riguarda il « reo confesso » Pino Pelosi. A prescindere, però, dalle controverse ricostruzioni giudiziarie, i nodi problematici vennero quasi subito al pettine.

Nell’orazione funebre pronunciata il 5 novembre 1995 in Campo de’ fiori, Alberto Moravia non nascose d’essere perseguitato dall’« immagine emblematica di questo paese », ad un tempo agghiacciante e drammatica, di un « Pasolini che fugge a piedi, […] inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso » . Ma già in un articolo licenziato un paio di settimane dopo il feroce omicidio, Oriana Fallaci, la quale aveva una consuetudine di frequentazione con Pier Paolo Pasolini, prospettò « un’altra versione della morte » dell’intellettuale, della quale, nell’ottimistica visione della giornalista « probabilmente, la polizia (era)  conoscenza ma di cui non parla(va) per poter condurre più comodamente le indagini » e che « si basa(va) sulle testimonianze che (avevano) da offrire alcuni abitanti o frequentatori delle baracche che sorg(eva)no intorno allo spiazzato dove Pier Paolo Pasolini venne ucciso. In particolare, si basa(va) su ciò che venne visto e udito per circa mezz’ora da un romano che si trovava in una di quelle baracche per un convegno amoroso con una donna che non (era) sua moglie » . Queste le rivelazioni della fonte, di cui la Fallaci non avrebbe mai svelato l’identità, subendo piuttosto una condanna a quattro mesi di reclusione per reticenza: « Pasolini non venne aggredito e ucciso soltanto da Giuseppe Pelosi, ma da lui e da altri due teppisti, che sembra(va)no assai conosciuti nel mondo della droga. I due teppisti erano giunti a bordo di una motocicletta dopo mezzanotte, ed erano entrati insieme a Pasolini e al Pelosi in una baracca, che lo scrittore era solito affittare per centomila lire ogni volta che vi si recava  […] Le urla di un alterco violento cominciarono dopo qualche tempo che i quattro si trovarono dentro la baracca. A gridare: “Porco, brutto porco” non era Pasolini ma erano i tre ragazzi. A un certo punto la porta della baracca si spalancò e Pasolini uscì correndo verso la sua automobile. Riuscì a raggiungerla e si apprestava a salirci quando i due giovanotti della motocicletta lo agguantarono e lo tirarono fuori. Pasolini si divincolò e riprese a fuggire. Ma i tre gli furono di nuovo addosso e continuarono a colpirlo. Stavolta con le tavolette di legno e anche con le catene. Ciascuno di loro aveva in mano una tavoletta e i due teppisti più grossi avevano in mano anche le catene » ; quando questo accadeva « Erano circa le una del mattino e le urla dell’alterco continuarono, udite da tutti, per quasi o circa mezz’ora » . Stando al racconto della fonte, Pasolini cercò di difendersi e quando s’abbatté esanime, « i due ragazzi corsero verso la sua automobile, vi salirono sopra, e passarono due volte sopra il corpo dello scrittore, mentre Giuseppe Pelosi rimaneva a guardare. Poi i due scesero dall’automobile, salirono sulla motocicletta, partirono mentre Giuseppe Pelosi gridava: “Mo’ me lasciate solo, mo’ me lasciate qui”. Continuò a gridare in quel modo anche dopo che i due si furono allontanati. Allora si diresse a sua volta verso l’automobile di Pasolini, vi salì e scappò » . Secondo la giornalista, peraltro, « La scena sarebbe stata vista non soltanto da chi era nelle “baracche” ma anche da una coppia appartata dentro un’automobile, poco lontano » , una versione questa che, aggiungeva la Fallaci, avrebbe risolto i dubbi fin lì da tutti avanzati « sulla possibilità che un uomo robusto e sportivo come Pasolini potesse essere sopraffatto da una persona sola, anzi da un ragazzo di diciassette anni, meno forte di lui » . La giornalista sottolineava, inoltre: « in un primo tempo fu detto dalla polizia che nelle unghie di Pasolini erano stati trovati residui di pelle. Secondo la versione ora fornita, Pasolini tentò disperatamente di difendersi. Sul volto e sul corpo di Giuseppe Pelosi non esistono segni di una colluttazione. Tali segni, o tali graffi, si dovrebbero trovare sul volto o sul corpo degli altri due teppisti » . L’articolo si chiudeva con una serie di domande, alle quali investigatori meno svagati avrebbero dovuto tentare  di dare una risposta: « Perché il Pelosi non parla e si assume tutta la responsabilità? È legato anche lui al mondo della droga? Perché lui stesso ha messo sulla pista la polizia raccontando di avere perso un anello che nessuno, fino a quel momento, sapeva che fosse suo? È possibile perdere un anello durante una colluttazione? Oppure l’anello è stato gettato lì di proposito, e il Pelosi ha parlato, raccontando tutto, e la polizia non ce ne dà notizia? »

 

 

*Giusifilosofo

10/Segue

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