Economia e Lavoro

Riacquisto con diritto di usufrutto, non conta per i benefici prima casa

 

In caso di vendita, prima dei cinque anni, dell’abitazione acquistata con le agevolazioni “prima casa”, l’acquisto del diritto di usufrutto di altro immobile non consente di evitare la perdita dei benefici fruiti. La salvaguardia dalla decadenza, infatti, non comprende anche gli acquisti di diritti reali di godimento, ma richiede l’acquisto del diritto di proprietà un immobile da destinare ad abitazione principale. È quanto disposto dal Tur, il quale, da un lato, prevede che “in caso di dichiarazione mendace o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una sovrattassa pari al 30 per cento delle stesse imposte[…]”, dall’altro che “le predette disposizioni non si applicano nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato con i benefici di cui al presente articolo, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale” (articolo 1, comma 4, Nota II-bis, Dpr n. 131/1986). Lo spiega l’Agenzia nella risposta n. 192 del 4 ottobre 2024, sottolineando che la perdita dei benefici non avviene solo quando il contribuente, entro un anno dall’alienazione effettuata prima del decorso del quinquennio, proceda “all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale”, anche a titolo gratuito (risoluzione n. 49/2015): tale condizione si realizza soltanto con l’acquisto del diritto di piena proprietà dell’immobile e non con quello del diritto di usufrutto o di abitazione sullo stesso. La conclusione raggiunta è, d’altronde, supportata sia dalla Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 46/2009, che dalla Cassazione, con varie pronunce, tra le quali l’ordinanza n. 11221/2020. Nell’occasione, in particolare, ha affermato che “a differenza della fattispecie relativa all’accesso al beneficio la norma non estende espressamente il suo ambito di applicazione anche agli acquisti di diritti reali di godimento sul bene, limitandosi a richiedere l’acquisto di un immobile da destinarsi ad abitazione principale”. Tanto premesso, a parere dell’Agenzia, per ”acquisto” si deve intendere l’acquisizione del diritto di proprietà dell’abitazione e non del diritto reale di godimento (di abitazione/ usufrutto). Pertanto, non può condividere la soluzione auspicata dal contribuente istante, il quale ritiene di poter usufruire nuovamente dei benefici “prima casa” per l’acquisto del diritto di usufrutto totale e di poter utilizzare il credito d’imposta per pagare l’imposta di registro dovuta sul nuovo atto e, per la parte che residua, in diminuzione dell’Irpef dovuta nella dichiarazione dei redditi. La decadenza, chiarisce l’Amministrazione, comporta anche il mancato riconoscimento del credito d’imposta (articolo 7, comma 1, legge n. 448/1998), in quanto, come precisato con la circolare n. 38/2005, il credito d’imposta in argomento non spetta, tra l’altro, “se il contribuente è decaduto dall’agevolazione prima casa in relazione al precedente acquisto, in quanto ciò comporta automaticamente, oltre al recupero delle imposte ordinarie e delle sanzioni, anche il recupero del credito eventualmente fruito”.

 

Branch o residenza fiscale, l’esame va caso per caso

I prezzi di trasferimento intercompany, fenomeno collegato alla doppia imposizione (o doppia non imposizione) internazionale, sono una tematica analizzata dalle Amministrazioni fiscali e dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

A livello internazionale, è stato implementato l’articolo 9 del modello di Convenzione contro le doppie imposizioni, il quale definisce il principio di libera concorrenza (arm’s length principle), il quale deve essere rispettato nelle transazioni tra imprese facenti parte di un gruppo di imprese multinazionale. L’ Ocse ha ampiamente analizzato la materia e i risultati sono riportati nelle linee guida sui prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali. A livello interno, in Italia il trattamento fiscale dei componenti del reddito derivanti da operazioni tra società consociate residenti in Paesi differenti è disciplinato dall’articolo 110, comma 7 del Tuir.

Le linee guida per l’applicazione delle disposizioni previste
da questo articolo in materia di prezzi di trasferimento sono state predisposte dal ministero dell’Economia e delle Finanze, con un decreto ministeriale del 14 maggio 2018. Nel decreto vengono fornite le definizioni di:

  • imprese associate
  • partecipazione nella gestione, nel controllo o nel capitale
  • imprese indipendenti
  • operazioni controllate e non controllate
  • indicatore finanziario.

Nello stesso viene data enfasi al fatto che la valorizzazione delle operazioni oggetto di controllo, in base al arm’s length principle, deve essere determinato utilizzando il metodo più appropriato alla fattispecie concreta, evidenziando che sono tutti conformi i seguenti metodi:

  • del confronto di prezzo
  • del prezzo di rivendita
  • del costo maggiorato
  • del margine netto della transazione
  • transazionale di ripartizione degli utili.

Risulta importante evidenziare che il ministero ha previsto anche la possibilità che il contribuente possa applicare un metodo alternativo, nel caso in cui possa dimostrare che tale metodo produca un risultato più affidabile. Quindi, in ambito di gruppi societari multinazionali, l’analisi delle funzioni e dei rischi è un’attività quotidiana al fine di individuare “the best method rule” e i prezzi di trasferimento intercompany. Da questo tipo di analisi, o sulle varie funzioni e rischi assunti dalle singole legal entity, può emergere che eventuali criticità non si riferiscano solamente all’individuazione del metodo per la verifica del transfer pricing. Infatti, in base alle varie funzioni svolte e ai rischi assunti, potrebbe emergere la circostanza che ci siano gli elementi per configurare una stabile organizzazione.

Sotto il profilo giuridico, la branch non è un’entità autonoma e distinta rispetto alla casa madre, della quale costituisce una mera diramazione, piuttosto è considerata un’entità separata solamente da un punto di vista fiscale, come desumibile sia dall’ordinamento domestico sia in ambito internazionale. Il Modello di convenzione contro le doppie imposizioni Ocse, all’articolo 5, definisce la stabile organizzazione. In particolare, i primi quattro paragrafi definiscono la stabile organizzazione “materiale”, mentre i paragrafi da 5 a 6 la “personale – agent clause”.

In ambito domestico, la disciplina della stabile organizzazione si trova nell’articolo 162 del Tuir. Da non sottovalutare è la portata del comma 6 dell’articolo, il quale definisce la stabile organizzazione come “personale”. Secondo tale comma, si considera che un’impresa non residente abbia una branch nel territorio dello Stato quando un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di essa e, abitualmente, conclude contratti o opera ai fini della conclusione degli stessi senza modifiche sostanziali da parte di quest’ultima.

Può capitare non di rado, quindi, che da una puntuale analisi di transfer pricing possa emergere che in Italia vengano svolte funzioni che facciano individuare la presenza di una branch della capogruppo/consociata estera, ad esempio per le circostanze individuate dal citato comma 6. Tuttavia, non è detto che non possano emergere contestazioni di più ampia rilevanza, quale la residenza in Italia della società formalmente estera, come definita dall’articolo 73, comma 3 del Tuir.

Tale situazione si può rilevare ogni qualvolta siano presenti una serie di fattori che denotino l’esistenza in Italia della sede effettiva dell’amministrazione, intesa come luogo ove hanno concreto svolgimento le attività di direzione effettiva della società, in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività.

Un caso di giurisprudenza recente
Riguardo specificamente l’accertamento della residenza fiscale, in riferimento a una società formalmente estera con vari plant produttivi in Romania ma fiscalmente residente in Italia, si è recentemente espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza 20002 pubblicata il 19 luglio 2024. In particolare, l’Amministrazione finanziaria ha constatato l’effettiva direzione continuativa dell’attività operativa quotidiana di una società avente plant produttivi in Romania. Infatti, dall’attività di verifica è emerso che la controllante italiana svolgeva tale attività operativa, facendo emergere un caso di esterovestizione della controllata rumena.

Vista l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia, l’ufficio accertatore ha determinato il reddito imponibile con un metodo analitico-induttivo. In primo grado, i giudici di merito hanno respinto il ricorso del contribuente. In appello, la Commissione tributaria regionale della Toscana ha rilevato: “un rapporto di carattere meramente strumentale/operativo, piuttosto che un rapporto tra società controllante e società controllata”. I giudici toscani hanno considerato che l’ufficio accertatore avesse assolto l’onere probatorio della residenza in Italia della società, visti i documenti rinvenuti durante l’attività istruttoria.

Nella sentenza di merito viene chiarito che: “l’insieme dei documenti dimostra che la sede amministrativa era di fatto in Italia”, configurando la residenza fiscale in Italia, ai sensi dell’articolo 73, comma 3 del Tuir.
In estrema sintesi, i documenti rinvenuti in verifica si riferivano:

  • alla localizzazione della sede
  • alla gestione del personale
  • alle decisioni per l’assicurazione dell’immobile
  • decisioni attinenti ad operazioni di finanziamento
  • gestione societaria e incarichi amministrativi
  • predisposizione bilanci sociali
  • gestione dei contratti con soggetti esterni
  • atti di indirizzo commerciale

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, evidenziando che sono stati individuati una serie di fattori che denotano l’esistenza in Italia della sede effettiva dell’amministrazione, intesa come luogo ove hanno concreto svolgimento le attività di direzione effettiva della società, in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività.

I giudici di Piazza Cavour, tenendo in considerazione gli stabilimenti industriali presenti in loco in Romania, hanno chiarito che è individuabile in Italia la residenza fiscale, in quanto la sede della direzione effettiva è stata accertata in provincia di Arezzo, specificando che “il rapporto intercorso in concreto tra loro (ndr. casa madre e consociata rumena) non coincide semplicemente con quello astrattamente ipotizzabile tra controllante e controllata, ma in concreto ha assunto natura ‘strumentale/operativa’”.

In relazione al secondo motivo di ricorso, ovvero alla violazione del diritto riconosciuto dalla normativa comunitaria in tema di “libertà di stabilimento”, previsto dagli artt. 49 e ss. del Tue, la Cassazione ha ritenuto inammissibile tale doglianza. Al riguardo, dal Palazzaccio è stato chiarito che l’Amministrazione finanziaria è legittimata a contestare la residenza fiscale in Italia, ai sensi del comma 3 dell’articolo 73 del Tuir, anche se all’estero vi “è una società dotata di stabilimenti produttivi con oltre 260 dipendenti”, in quanto bisogna tenere in considerazione i requisiti sostanziali previsti dalla disciplina nazionale ed internazionale.

I giudici hanno colto l’occasione per ricordare che le modifiche del citato articolo 73, disposte dall’articolo 2 del DLgs n. 209/2023, si applicano a decorrere dal periodo di imposta 2024. Quindi, fino al 2024, una società di capitali è considerata fiscalmente residente in Italia quando, per la maggior parte del periodo d’imposta, ha avuto alternativamente nel territorio dello Stato:

  • la sede legale – requisito formale
  • la sede dell’amministrazione – requisito sostanziale
  • l’oggetto principale – requisito sostanziale.

In pratica, il legislatore fiscale, alla stregua di quello civilistico, ha dato rilevanza non soltanto al criterio formale della localizzazione della sede legale della società sul territorio nazionale, ma principalmente ai criteri sostanziali collegati alla sede dell’amministrazione o allo svolgimento dell’oggetto principale dell’impresa in Italia. Tali criteri, sia formali sia sostanziali, sono alternativi tra loro, pertanto è sufficiente che operi uno soltanto di essi per ritenere la società residente fiscalmente in Italia e, conseguentemente, soggetta a tassazione per i redditi ovunque prodotti nel mondo.

I giudici hanno ribadito i chiarimenti forniti nella sentenza n. 23150 del 25 luglio 2022: in tale pronuncia è stato formulato il seguente principio di diritto: “In materia di imposte sui redditi delle società, l’art. 73, comma 3, d.P.R. n. 917 del 1986 individua i criteri di collegamento (la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale), paritetici ed alternativi, delle società e degli enti con il territorio dello Stato, la cui ricorrenza, per la maggior parte del periodo d’imposta, determina la residenza in Italia e l’assoggettamento alla potestà impositiva del fisco italiano, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva della contribuente, che sia volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe”.

Conclusioni
Al fine di verificare la residenza fiscale di una società, è necessario procedere con un approccio case-by-case, verificando una serie di dati e fatti. I giudici di legittimità hanno ribadito che “gli Stati membri sono liberi di determinare autonomamente, per effetto di norme interne e di convenzioni internazionali, i criteri di collegamento con il loro territorio ai fini fiscali, pur nell’ambito del rispetto dei diritti” di libertà di stabilimento garantito dal Trattato Ue.

Nel caso analizzato nella sentenza, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo contestare la residenza in Italia di una società localizzata in Romania, anche se la stessa aveva dei plant produttivi ivi localizzati. In estrema sintesi, la società è stata considerata fiscalmente residente in Italia, mentre gli stabilimenti produttivi esteri possono essere ricondotti ad una stabile organizzazione estera.

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